Halloween partenopeo, ovvero “E muorte”
«Ogn’anno, il due novembre, c’é l’usanza per i defunti andare al Cimitero. Ognuno ll’adda fà chesta crianza; ognuno adda tené chistu penziero.»
‘A livella di Totò è certamente il simbolo per eccellenza che testimonia l’importanza e il radicamento del culto dei morti all’interno della cultura napoletana.
A quasi sessant’anni di distanza dalla poesia del principe, possiamo affermare che la stessa tradizione, la stessa “usanza”, è ben viva nel popolo partenopeo che ogni anno, in occasione del 2 novembre, si reca a trovare i propri cari oramai scomparsi. Allo stesso tempo, però, dobbiamo constatare come questa tradizione, insieme con la sua ritualità e nelle sue forme esteriori, sia andata progressivamente a intrecciarsi con quella di Halloween a causa delle costanti influenze d’oltreoceano e difatti, di anno in anno, sempre più spesso si sente parlare di Halloween piuttosto che de “i Morti” e i dibattiti che scaturiscono sono caratterizzati da toni polemici che pongono l’accento sopra un’eccessiva americanizzazione della nostra Cultura.
In realtà le cose stanno diversamente e, a dirla tutta, l’influenza di culture “forti” o “di prestigio” sulle altre è cosa nota e acclarata in tutti gli studi del settore umanistico. A differenza di quel che viene comunemente ripetuto, la festa di Halloween ha origini europee ed è il risultato di una sovrapposizione di tradizioni tra loro diverse, cristiane e pagane, accomunante dalla volontà di affermare in qualche modo una continuità tra questa vita e ciò che è aldilà, celebrando non solo il ricordo vivo ma anche la presenza concreta dello spirito dei cari che ci hanno lasciato.
Le critiche mosse nei confronti di questi festeggiamenti riguardano principalmente sia l’accento esoterico e occulto, ovvero il gusto orrorifico che caratterizza i travestimenti, che un certo “paganesimo” che porterebbe ad un allontanamento dai valori cristiani e all’esaltazione di credenze che riguardano, in un certo qual modo, la superstizione.
Una prima risposta verso queste critiche potrebbe essere data mettendo in evidenza il fatto che sia pressocché inevitabile che una ricorrenza riguardante uno dei misteri più grandi dell’esistenza, tutta volta a celebrare una continuità tra la vita e la morte, non solo susciti interesse circa il contatto -più o meno diretto- con l’aldilà ma anche che ci sia una certa esaltazione o “celebrazione” della morte in sé, con tutto ciò che a essa si collega. Ma questa celebrazione non è fine a se stessa: ha la funzione di esorcizzare la paura della morte. E da questo aspetto nascono le accuse di “paganesimo”. Accuse, però, che non hanno ragione di sussistere perché la nostra tradizione, italiana e partenopea, è ricchissima di esempi nei quali superstizione e religione Cattolica si fondono insieme dando vita a quell’insieme di valori, sentimenti e nozioni che, insieme, costituiscono la nostra identità. Senza andare troppo lontano, basti pensare al Cimitero delle Fontanelle con le sue innumerevoli storie che vanno al di là del precetto religioso, sfociando nella scaramanzia e nella superstizione, e rendono questo posto uno dei simboli più potenti della cultura del popolo napoletano.
Non sorprenderà, dunque, ricordare in questa sede che i festeggiamenti per I Morti, a Napoli e in Campania, sono sempre stati caratterizzati da quello stesso colore che contraddistingue le altre manifestazioni della religiosità partenopea. Ne dà una testimonianza indiretta e appena accennata Eduardo De Filippo in Filumena Marturano, nel 1946, quando Rosalia racconta come è sopravvissuta vendendo, tra le altre cose, le cascettelle durante le festività de e Muorte. Le cascettelle altro non erano se non piccole scatole di cartone sulle quali erano solitamente raffigurati un teschio e un paio d’ossa incrociate che venivano portate, di porta in porta, dai bambini che chiedevano qualche monetina da offrire in dono alla Chiesa o, più comunemente, utilizzate per comprare dolciumi. Una testimonianza più dettagliata la offre Matilde Serao in un articolo del 1904, il cui testo è facilmente reperibile in rete, nel quale descrive l’assordante gioia dei bambini che irrompono per le strade della città chiedendo un contributo in onore della festa: «è nel nome dei morti, che l’infanzia chiede la sua mancia: è con questa invocazione pietosa che essa vi domanda il piccolo obolo. E gli occhietti vi interrogano ansiosi, e spiano le vostre mosse; e lampeggiano felici quando la vostra mano si tende, e l’obolo è dato: “Signurì, e muorte!”. Oh, date pure un soldino a questi bimbi che ve lo chiedono gaiamente, agitando la cascettella crocesegnata, e si sparpagliano con un grido di gioia, quando sono contentati».
Si potrebbe continuare riportando testimonianze sempre più lontane nel tempo, ma il concetto è chiaro: per i napoletani la ricorrenza dei muorte è sempre stata anche fonte di gioia e allegria, una di quelle occasioni nelle quali lo spirito partenopeo si manifesta in tutta la sua caratteristica e vitale bellezza, fondendo insieme vita e morte, superstizione e religione, ironia e malinconia.
Allora perché ogni anno ci stupiamo se dei giovani esorcizzano la morte in maniera leggera e spensierata?
Lasciamo ai giovani la gaiezza che è propria del loro tempo.
E lasciamo che il mondo sia partecipe, per un giorno, di quel paradosso pieno di contraddizioni e di vitalità che è la cultura partenopea.
31 Ottobre 2020