Luciano De Crescenzo: una testimonianza vissuta della napoletanità come valore aggiunto
Nel mondo globalizzato, caratterizzato da una interconnessione totale globale a più livelli, si vive una sempre maggiore difficoltà nell’accogliere ed integrare culture diverse. Il bacino del mediterraneo è sempre stato culla di contaminazioni culturali poliedriche, che hanno consentito di sviluppare nei secoli quella cultura occidentale caratterizzata da una forte identità democratica pluralista, che affonda le sue radici nella cultura filosofica greca, nella cultura pragmatica romana e nel Cristianesimo come tre principali radici storiche culturali antiche che caratterizzano il mondo occidentale.
Uno dei massimi testimoni della cultura partenopea è stato Luciano De Crescenzo, che fu custode di una napoletanità come capacità dei napoletani di affrontare le situazioni con una filosofia pratica ed ironica, in grado di comunicare i grandi temi della vita in modo affabile, sviluppando risposte semplici e profonde alle tematiche complesse della realtà.
L’aneddoto ed il controcanto ironico diventano strumenti per far incuriosire le persone ai grandi temi della vita, con una filosofia che non è mera speculazione ma comprensione profonda delle dinamiche complesse della realtà al fine di poterle affrontare in modo semplice e divertente, capacità che fece dell’ingegnere-filosofo uno dei più grandi divulgatori non solo del sapere, ma del “sapere fare”, in quel particolare modo che oggi definiamo napoletanità, definita dalla Enciclopedia Treccani come: “l’insieme delle tradizioni, degli usi, delle qualità e degli atteggiamenti spirituali che costituiscono il patrimonio storico della città di Napoli e dei Napoletani”.
Riscoprire la vita e le opere di Luciano De Crescenzo oggi assume una particolare rilevanza in una fase di rinascita della città, dove spesso la napoletanità viene distorta solo a determinate manifestazioni della stessa. I social ci hanno abituati al brutto vizio di “taggare”, cioè di etichettare qualsiasi cosa, laddove nel momento in cui si tagga una qualsiasi cosa o persona sorge un pregiudizio dovuto al fatto stesso di aver catalogato la cosa o addirittura la persona, come avviene nelle foto di gruppo che spesso postiamo sui social.
Nel momento in cui tagghiamo, apponiamo una etichetta, e quindi sviluppiamo un pregiudizio sulla cosa stessa, che ci impedisce di ascoltare e quindi di comprendere la complessità semplice celata nello stesso termine napoletanità. Potremmo chiederci Socraticamente, che cos’è la napoletanità? Una identità da difendere come base dello sviluppo culturale della città, o al contrario una gabbia concettuale che non consente il manifestarsi di una nuova napoletanità che non sostituisce, ma al contrario conserva, integra e sviluppa il “modo di essere” napoletani?
In “Storia della Filosofia medievale” De Crescenzo scriveva l’importanza di essere un divulgatore: “Credo di essere una di quelle scalette con soli tre gradini, che si trovano nelle biblioteche e che consentono di prendere i libri dagli scaffali che stanno più in alto” mentre in “Così parlo Bellavista” afferma: “Si è sempre meridionali di qualcuno”, insegnamenti che ci fanno comprendere l’importanza della napoletanità intesa non come stereotipizzazione ma come capacità di saper affrontare i problemi complessi della realtà in modo ironico e mai banale, andando contro i processi di omologazione e standardizzazione culturale che sono un pericolo per il pluralismo delle idee, senza mai perdere quella fierezza delle propri radici culturali che sono in primo luogo radici valoriali, cioè che indicano le cose che hanno valore, laddove il valore deriva dal senso e quindi dal significato che attribuiamo ai fatti della realtà. In una società che tagga, stereotipizza, omologa, la napoletanità intesa in modo sano, quel modo incarnato dalla vita e dalle opere dell’ingegnere-filosofo, può essere un antidoto a molti mali del mondo moderno, motivo per cui nel murales a lui dedicato, sito nei Quartieri Spagnoli, è scritta una sua celebre frase: “Io penso che Napoli sia ancora l’ultima speranza che ha l’umanità per sopravvivere”.