Scarpetta incontrò D’Annunzio e la modernità ebbe inizio
«Che cacchio m’accocchia questo Cocchia?»
Il 24 agosto 1904, Eduardo Scarpetta, insieme con Gaetano Miranda, si recò a Marina di Pisa per incontrare Gabriele D’Annunzio.
Scarpetta, non solo padre di Vincenzo Scarpetta ma anche dei fratelli De Filippo, in quel momento, era il più importante attore e autore comico napoletano: alle sue rappresentazioni le sale erano gremite di gente, il popolo napoletano lo amava e, ovunque lui andasse, non mancavano manifestazioni di stima e di sincero affetto. L’autore partenopeo formatosi, soprattutto, alla corte di Antonio Petito, era stato in grado di cogliere i mutamenti della società e aveva intercettato il nuovo gusto popolar-borghese che in quel periodo venne fuori, anche riadattando e trasformando la maschera di Pulcinella che lo stesso Antonio Petito indossava sul palco del San Carlino e che, oramai, aveva fatto il suo tempo.
Il successo, si sa, è una sirena ammaliatrice che fa perdere all’uomo i lumi della ragione. E se, a questi sogni, aggiungiamo i gloriosi propositi di un’arte colta e raffinata che elevi lo spirito verso vette inusitate, ecco che si potrà avere il quadro di chi, a Scarpetta, voleva far le scarpe.
Pressappoco.
Sul finire dell’Ottocento, il discorso intorno al teatro dialettale e, nello specifico, napoletano, prese le connotazioni di una vera e propria battaglia che vedeva schierati Scarpetta, da un lato, e dall’altro tutti gli altri -come racconta la figlia Maria Scarpetta nel suo volume dedicato alla memoria dell’amato padre. Bracco, Di Giacomo, Ferdinando Russo… solo alcuni tra gli eccellenti nomi che si opponevano a Don Eduardo. Ma Scarpetta, da buon teatrante, era disposto ad ascoltare la voce di un solo giudice e uno soltanto: il pubblico.
Il suo pubblico.
In questo scenario, nel 1904, avvenne che Scarpetta rimase folgorato da un dramma del divino Gabriele, La figlia di Jorio, e -preso da febbrile ossessione- decise di farne una parodia. Erano quelli tempi di transizione, nei quali il mondo intero era precipitato improvvisamente in una modernità che si muoveva ad un ritmo inusitato ritrovandosi, quindi, a fare i conti con i meccanismi di un passato ancora decisamente presente. Il confine tra diritto d’autore, il libero utilizzo, la citazione e il plagio era, allora, molto labile e la stessa S.I.A.E. (Società Italiana Autori ed Editori), oggi preposta al controllo e alla difesa della proprietà intellettuale, muoveva i primi incerti passi con il nome di S.I.A. cercando in ogni modo di imporsi contro la resistenza degli uomini di teatro.
Accadde, allora, che quando Scarpetta ebbe annunciata la propria parodia sui giornali, si aprì un intenso dibattito sull’opportunità che Sciosciammocca parodiasse il sublime D’Annunzio. Eduardo, nonostante sapesse di non dover ricevere alcun permesso perché si trattava di una parodia, intuendo il pericolo e volendo togliersi d’impaccio, si decise a far visita al vate nella sua villa a Marina di Pisa, in un avventuroso viaggio che il comico racconterà, poi, con i toni di un’epopea comica connotata da «tuoni» e «lampi», un tempo ostile nel quale sembrava che «le cataratte del cielo si erano spalancate!». Durante quell’incontro, l’autore napoletano, accompagnato da Gaetano Miranda, chiese esplicitamente il consenso del D’Annunzio il quale, stando al racconto di Eduardo e di Miranda, acconsentì pur non volendo, però, metterlo per iscritto al fine di evitare «strumentalizzazioni» e «pettegolezzi». Scarpetta, quindi, che aveva anche scritto dei gustosi versi come supplica e letto, in quell’occasione, al poeta, tornò a Napoli convinto di aver ricevuto l’agognato consenso. Un mese dopo, però, D’Annunzio, improvvisamente, ritratta tutto per mezzo stampa e tenta di impedirne la rappresentazione: oramai, come ebbe ad affermare Scarpetta, era troppo tardi per tirarsi indietro, soprattutto a causa delle spese economiche alle quali era andato incontro. E poi, si trattava di una parodia! Era certo, Scarpetta, che tutto si sarebbe quietato dopo la messinscena dell’opera, sulle ali dell’atteso -e prevedibile- successo.
Quando, il 3 dicembre 1904, la parodia intitolata Il Figlio di Jorio andò in scena, «gremiva il teatro un pubblico eccezionalmente signorile e le prima battute della parodia provocarono risa ed applausi; al secondo atto, però, un gruppo ostile diffuse fischi a cui si contrapposero pochi applausi; poi i fischi continuarono […] e si dovette calare la tela. Gli studenti allora acclamarono a d’Annunzio e all’arte italiana».
La parodia fu, letteralmente, abbattuta dai militanti dannunziani insieme con gli oppositori del teatro scarpettiano e a nulla valse la supplica, quasi in lacrime, del comico napoletano.
Il giorno dopo, molti critici -anch’essi presenti in sala e appartenenti al gruppo degli oppositori- dichiarano trionfanti che giustizia era stata fatta e che Sciosciammocca era stato -finalmente- castigato. La settimana successiva, a Scarpetta fu notificata l’accusa avanzata dalla S.I.A. per conto del socio Gabriele D’Annunzio, per difendere “un’opera che non aveva ancora fatto il suo corso” da una “spregevole contraffazione” quale era l’opera scarpettiana. Il processo durò molti anni e coinvolse nomi eccellenti che non mancarono di prestarsi come periti di parte: da un lato Roberto Bracco e Salvatore Di Giacomo, già oppositori del teatro scarpettiano, e dall’altra Benedetto Croce e Giorgio Arcoleo.
La causa, infine, si risolse con la “trionfale vittoria” di Scarpetta poiché le accuse di plagio erano inconsistenti e basate più sul concetto di “lesa maestà” e “sacrilegio” piuttosto che su fatti concreti. Ma Scarpetta, il suo teatro, la sua epoca, ne uscirono sconfitti.
Dopo quella sera, Eduardo Scarpetta, energico e inesauribile istrione della scena napoletana, cominciò a soffrire di attacchi di panico, lo stage fright, paura del palcoscenico: il rapporto d’amore col pubblico gli si era ritorto contro e quella ferita risultò, per lui, insanabile. Pian piano smise di recitare e scrisse sempre meno, pur partecipando -celato tra le comparse e ben camuffato- talvolta a qualche spettacolo all’insaputa di tutti.
Una feroce battaglia combattuta in nome di altissimi ideali si concluse con il dolore, profondo e sotterraneo, al quale fu strappata via la sua ragione di vita.
Da allora, fu chiaro che gli attori e gli autori teatrali si sarebbero mossi in un campo nuovo, regolato da regole ferree e rigide, con confini molto più marcati e una subalternità -quella tra autore e attore- ben definita. Non mancheranno, in seguito, eccezioni e trasgressioni, ma oramai la strada era tracciata e un limite imposto: ancora oggi, la causa D’Annunzio-Scarpetta resta un punto di riferimento sulle diatribe legali intorno al plagio. Ma rileggendo, tra le carte del processo, la testimonianza-show di Eduardo Scarpetta, non possiamo non simpatizzare con il comico napoletano immaginandoci come deve essere stato, quel lontano giorno dell’agosto 1904, l’incontro tra la maschera di Sci